Anche nel contesto finanziario la sensibilità alle tematiche ambientali ha evidenziato i gravi danni causati delle criptovalute. Recentemente sono stati lanciati i primi fondi ETF passivi che replicano il Bitcoin: da un punto di vista normativo, tali fondi sono tenuti ad acquistare Bitcoin per riflettere l’andamento dell’indice, ma questo non evita i notevoli impatti ambientali e gli sprechi di risorse naturali nel corso degli anni. Non esiste inoltre una replica pura dell’indice, ma c’è un sottostante che fa da garante dell’investimento.
La produzione di Bitcoin è infatti alimentata principalmente da combustibili fossili. Nel solo 2023, l’inquinamento derivante dal mining di Bitcoin ha eguagliato le emissioni di anidride carbonica di 17 milioni di autoveicoli. Il processo inoltre richiede un notevole consumo d’acqua per il raffreddamento dei server: le stime per il 2023 calcolano un consumo di 2 miliardi e 230 milioni di litri d’acqua, equivalente a 900 mila piscine olimpioniche.
Ricerche riportano come la produzione di Bitcoin abbia generato danni ambientali stimati tra i 12 miliardi di dollari, pari al 35% del controvalore del giro di affari prodotto dal Bitcoin. Il possibile quadruplicarsi del valore complessivo delle transazioni legate al Bitcoin nei prossimi 2-3 anni è un dato che suscita preoccupazioni sul possibile impatto futuro delle criptovalute.
Prima di investire in criptovalute occorre quindi valutare il possibile danno ambientale, oltre alla nota volatilità del Bitcoin. Sebbene rimangano valide le opportunità di investimento legate alla tecnologia blockchain, il nostro impegno verso l’ambiente non deve venire a meno.